Lingua Italiana,  May 2021,  Short Fiction

Giuseppina della Tempesta

Featured in the May 2021 Issue of The Open Doors Review.

Fiction by: Andrea Tani


Dalla sera prima una tempesta di vento incurvava gli ombrelli, sbandierava i manifesti elettorali e faceva sbattere le persiane di legno. Le strade e le balconate s’erano riempite di cartacce, e gli aghi di pino avevano tappato tutti i tombini. Poche ore prima il nuovo sindaco aveva preso il microfono, ma non aveva fatto in tempo a presentarsi che si staccò un ramo da un albero e finì sopra una jeep. Partì l’antifurto e tutti s’impaurirono. Il forte vento alzò anche la polvere, che oltre a spostarsi a mulinelli finì per travolgere i tendoni del mangiare. Ebbero la peggio le lasagne fatte in casa e le pinolate ancora calde, e si spensero del tutto il parco giochi, il trenino e le luci del palco. La festa proloco, l’evento più importante dell’anno, era rovinata. Non ci fu modo di raccogliere i soldi contanti che andavano veloci agli ospedali di zona. Per i ragazzi delle elementari poi quella festa era molto di più, anticipava di una settimana il martedì di carnevale ed era un banco di prova per sfoggiare i costumi più belli. Le mamme si chiudevano in casa e diventavano delle sarte accanite. Armate di ago e filo facevano le nottate a lucidarsi i gomiti, fino a quando i figlioletti non si trasformavano in personaggi della Marvel.

Tutto questo era andato in malora.

Un forte acquazzone diventò in fango e il fango s’appiccicò sugli addobbi delle maestre, sulle scarpe da ginnastica, sulle fioriere offerte dal quartiere. E continuava a volare di tutto: sacchi della spazzatura, cartoni, piatti e bicchieri di carta, ma soprattutto le mantelle dei supereroi. E allora alcuni bambini strillavano, altri invece pensavano davvero che potevano volare. 

Giuseppina della tempesta dei bambini se ne fregava di brutto. S’era messa la borsa dell’acqua calda sulle gambe e si fumava in santa pace la sua Milde Sorte che scuoteva nel barattolo di sott’aceti. Seduta al tavolo di cucina, aveva già smazzettato i buoni sconto del supermercato e i bollettini postali dell’Istituto dell’Immacolata. Cercava di appiccicare i bollini dell’ultima spesa su una schedina presa alla cassa, era in promozione un set di posate laccate di bianco disegnato sul davanti. Le persiane sbattevano ancora sugli infissi quando il solito micio riapparve lì sul davanzale della finestra. Veniva ogni giorno a fare la sua sfilata e quando Giuseppina se n’accorgeva andava alla porta e diceva: «Mi vuoi rubare il tonno, gattaccio? Tornatene da dove sei venuto!» bastava un colpetto al vetro e lui scappava. Ma in quei giorni quel micio non se ne voleva andare, stava lì sotto l’acqua con lo sguardo spento, spossato dal freddo e dalla fame. 

Giuseppina aveva uno strano rapporto coi gatti da quando vent’anni prima un incidente compromise il cervello splendido di sua figlia Serenella e portò via la sua micia Trilli. Non le andava giù che quella cosa fosse successa a lei. Non si capacitava che la casa di un tempo, quella di tante cene e tanti scherzi di Natale ora era come un enorme scatolone al buio sospeso nel vuoto e appeso a una cordicella. S’era rintanata in quelle quattro mura e con la pensione faceva quel che poteva per sostenere le spese del ricovero. In più aveva messo a faccia in giù tutte le foto di famiglia, anche se c’era una coltre di polvere e le tremavano le gambe ogni volta che ci passava davanti. 

Quando Giuseppina si svegliò, scemò il vento. Si scaldò la sua ciotola latte e crusca e s’accese la sua Milde Sorte. Le nuvole erano chiare e la luce del mattino entrava come spaghetti dai buchini dell’avvolgibile. Uscì sul terrazzo e vide qualcosa che le adombrò gli occhi. Un enorme coso grigiastro, simile a un telo, si era impigliato fra i rami alti del suo cipresso e copriva tutto il sole. Spazzatura di paese! pensò e battè i pugni sul muretto. Quella festa annuale per famiglie era così lurida, così intrisa di bigottismo, che i bambini non capivano, il “dolore” non era ancora entrato nella loro vita e tutto quello sfarzo, quelle risate, erano solo immondizia. E lei l’immondizia la gettava volentieri nel cassonetto. 

Quel coso andava assolutamente tolto.

Giuseppina andò in garage, s’infilò gli stivali, una tutina da giardiniera e afferrò una scala allungabile d’alluminio. Sentì un po’ male ai polsi, ma strinse i denti e la portò in giardino. Incagliò bene i piedini a terra, sbloccò i ganci di raccordo e scorse la scala fino in cima, cinque metri alta. Dopo impugnò un arpioncino e iniziò a salire, a ogni gradino sentiva cedere le ginocchia. Non era in buona salute, gli acciacchi dell’età l’accompagnavano in ogni cosa che faceva, ma oggi qualcosa dentro la smuoveva, non accettava che quel coso umidiccio troneggiasse nella sua proprietà. Poi non era mai salita su quel cipresso, che pure conosceva bene. Era l’albero di famiglia che se avesse potuto parlare, le avrebbe elencato le corse calde di sua figlia insieme a Trilli, quel batuffolo mangia snack che correva a saltelli come i canguri. Quindi era un albero importante, ma ora era marcio, poteva crollare in un secondo. Giuseppina lo sapeva, ma aveva una missione da compiere, salire scalino dopo scalino e arrivare in cima, e infatti fu così. Il coso ora era a circa un metro da lei e sembrava un lenzuolo di stoffa sintetica, strappato e di scarsa qualità. A contrasto col cielo creava una sagoma a forme alterne, a volte pareva un orco, a volte un’aquila in picchiata. Con una mano Giuseppina si resse alla scala, con l’altra allungò l’arpioncino. A forza di colpetti lo disincagliò e lo liberò del tutto. Cascò rigido per terra senza aprirsi, fra l’erbaccia e i ranuncoli schiacciati dai mattoni. 

E ora bisognava buttarlo via. Non esitò un secondo, lo infilò in un sacco nero e lo portò al cassonetto. Aprì il portellone ma trasalì. Fra le dita il tessuto non era così male, era vellutato come il vestito del suo matrimonio. Lo tirò fuori dal sacco e più che un lenzuolo ora, a causa dello strano mantello e dello strano cappuccio, lo confuse con un saio tibetano. Così lo portò a casa e lo infilò in lavatrice. Scelse il primo sapone che aveva nell’armadietto e dette il via. Quando il lavaggio fu finito, lo tirò fuori e lo tese ad asciugare. Dopo tre ore di sole lo portò in casa e lo appoggiò sotto la Singer. Abbassò la leva, scelse il filo più adatto e con un colpo di pedale la fece partire. Con molta cura rammendò ogni strappo che vedeva. Dopo le ultime cuciture lo stese sul letto e gli tolse i pelucchi qua e là.

Nei giorni successivi Giuseppina eliminò le verdure dalla dieta e riniziò a mangiare i pasticcini in offerta. Dopo aver oliato la macchina da cucire, riprese a spolverare i mobili del corridoio, gli scaffali e le vetrinette. E poi tornava con la mente a quel coso avvolto nel mistero, che tutto sommato era un semplice costume di carnevale. E più lo guardava e più aveva voglia di toccarlo. Nacque una curiosa dipendenza. Dopo il brodino delle dodici se lo teneva sulle spalle, e così faceva dopo il caffè delle sedici e la Milde Sorte del tardo pomeriggio. Quando andava a dormire lo stringeva tutt’intorno, tipo burrito e quando si svegliava non se lo toglieva di dosso per ore. Iniziò così a indossarlo. Se lo portava in giro per casa e lo usava per tutto: come accappatoio dopo la doccia, come cuscino per la cervicale, e a volte lo appendeva alla finestra come tenda occasionale. Ci si guardava pure allo specchio, con cappuccio giù e con cappuccio su. Non staccava gli occhi dalle sue forme, non toglieva il naso dalle sue pieghe morbide, amava il suo odore profondo e quando si accorgeva che scemava anche di poco, apriva lo sportello della lavatrice. Gli ammorbidenti non mancavano: aveva il muschio bianco, la fragranza fior di loto, quella agli agrumi e pure la vaniglia. Il trattamento di bellezza al costume era ormai una costante. Era sempre pulito, fresco di bucato e Giuseppina ci si tuffava dentro, ci si addormentava col viso. 

Era così presa che un giorno per poco si stava dimenticando l’ennesimo appuntamento con l’oncologo.

Arrivò la chiamata dall’ambulatorio. Controllo di routine. Giuseppina si fece un bagno più lungo del solito, non ci voleva andare. Lanciava occhiate imbruttite all’orologio sul muro e cercava col pensiero di fermare le lancette. Non si fermavano. Aveva già abusato di caffè a colazione, ma si prese un’altra fetta di crostata e si fumò un’altra sigaretta. Se devo morire, pensava, voglio morire come Dio comanda! Alla fine si vestì, si cambiò due o tre volte le scarpe, e andò in camera a salutare il suo costume. Aveva il manto soffice che giocava col pulviscolo radioso dell’aria, dalle rose sul balcone planava una fragranza fresca che finiva sulle cuciture. Se lo baciò, se lo strusciò fra le mani e col fiato spezzato uscì.

Dal dottore, seduta sulla sedia, aspettava soltanto il verdetto definitivo, delle semplici parole che l’avrebbero riportata alla realtà, al suo cancro vorace che le offuscava i pensieri e le giornate. «Due mesi, solo due mesi» le avevano detto l’ultima volta, e lei s’era rassegnata. Vide il dottore arrivare dalla sala analisi. Aveva una cartella in mano e le spalle distese. Il suo sguardo posato era fermo sulle ultime righe di un foglio. 

«Avanti dottore non perda tempo…»

Il dottore si sedette alla scrivania, adagiò i fogli accanto alla foto del figlio mascherato da dracula e la guardò negli occhi.

«Signora Pandolfini», esordì, «da quello che vedo da quest’ultimo esame qualcosa è cambiato.»

Giuseppina alzò le sopracciglia e replicò: «Non ho capito, che vuol dire?»

«Voglio dire che le lesioni al polmone, quello rimasto, sembrano in regressione…»

«E quindi?»

«E quindi credo…beh senza dubbio, che ha un altro anno di vita.»

Giuseppina deglutì e tirò fuori un fazzoletto rattrappito dalla manica. Dopo un paio di strombazzate lo raggomitolò e lo ripose nella borsetta.

«Non so cosa ha fatto signora Giuseppina», continuò il dottore, «ma continui con le medicine che le ho segnato e mangi tanta verdura.»

«Niente dolci e niente sigarette», disse lei col sorriso stampato, «come sempre.»

Giuseppina non riusciva nemmeno ad aprire la porta di casa da quanto le tremavano le dita. Una volta dentro andò in camera e disse al suo costume: «Hai capito? Hai capito cosa è successo?» e s’aspettava una risposta, ma la risposta non arrivava, perché dopotutto era solo un costume, un semplice costume di carnevale ben lavato e profumato. 

Si sedette davanti al telefono e il respiro diventò gravoso. Voleva che la cornetta si alzasse in modo autonomo e atterrasse su di lei. Desiderava poi che quella telefonata fosse già stata fatta, e che qualcosa succedesse, così si toglieva il pensiero. Ma era difficile, sul tavolo da gioco si stavano buttando fishes pesanti che avrebbero rotto il tavolo, frantumato il pavimento e sgretolato tutte le fognature a decine di metri di profondità. Giuseppina sudava. Si alzò, fece un giro per casa e rigirò le fotografie. Fra le tante c’era lei col povero marito in riva al mare, e poi di nuovo lei con Serenella e Trilli che le dormiva in braccio, e altro, tanti ricordi. Si accese l’ultima sigaretta del pacchetto e buttò fuori il fumo con molta calma. Dalla nuvola che si formò scorgeva le rotelle dei pattini che passavano, le urla dietro a una palla, i momenti delle favole che finivano con gli occhi chiusi. Dalla finestrella del corridoio intravide la piazza del paese che dopo la tempesta ricominciava a vivere, qualcuno ripristinava i pali della corrente, qualcun altro riapriva il negozio, dei bambini saltavano dalla fontana. Giuseppina dette l’ultima boccata, schiacciò il mozzicone e tornò al telefono.

Coi suoi occhialoni da vista scorreva le pagine di un’agendina. Si fermò su una pagina in particolare e puntò il dito su “Serenella Clinica” scritto a penna. Alzò la cornetta, fece il numero e rimase in attesa. La voce di un centralino rispose poco dopo: «Istituto dell’Immacolata buonasera.»

«Buona…sera», rispose lei, «sono la madre di Serenella Pandolfini.»

«Le passo il reparto, un momento.»

«Sì grazie.»

Una musichetta leggera di uno spot datato partì in sottofondo. A Giuseppina sfuggiva il titolo del brano, ma riconobbe il ritornello e nell’attesa si lasciò abbindolare da quelle note. Poi iniziò a guardare i muri intorno a lei e notò che tutti i quadri erano storti. Di traverso vide pure il randagino appollaiato sul davanzale, che stavolta la guardava.

«Sì chi è?» disse una voce dalla cornetta, più giovane e allegra.

«Seren…» rispose Giuseppina con la voce spezzata «…sono la mamma.»

«Io ho una mamma che si chiama Giuseppina.»

«Sì lo so, sono io» rispose coi lucciconi «Serenella ascolta, ho un altro anno!»

«Sai che io ho un gatto che si chiama Trilli?» rispose la figlia.

Dalla cornetta Giuseppina sentì arrivare qualcuno, il rumore degli zoccoli degli infermieri era inconfondibile e si faceva sempre più nitido. Una voce entrò nella cornetta e interruppe la conversazione: «Sì pronto chi è al telefono?»

Tu, tu, tu, tu…Giuseppina non poteva continuare, aveva la mano saldata alla cornetta. Gli occhi sgranati guardavano nel vuoto. Si voltò verso la cucina e vide che il micio era ancora lì alla finestra. Era tutto scarruffato e col muso picchiettava per entrare. Più lei lo guardava e più lui picchiettava. Lasciò la presa dalla cornetta, andò in cucina e dal frigorifero tirò fuori una scatoletta di tonno. Ma cosa sto facendo? si chiese. Guardò il micio e guardò il frigo aperto. Lui eccitato prese a strusciarsi alla persiana e seguì tutti i movimenti di lei. Con la scatoletta in mano Giuseppina aprì la porta e uscì fuori, poi versò il tonno in un sottovaso. Lui dal davanzale fece un grande salto e in due secondi aveva già la bocca piena e i baffi sporchi. Dopo una stiracchiata sparì nel vialetto dietro il terrazzo. 

«Ehi micio, non ne vuoi più? Vieni ce n’è ancora» disse lei.

Lui non si voltò e lei lo seguì col tonno in mano. Lo vide zoppicare a zig zag con la coda ritta, aveva una zampina che gli faceva male. Passò fra i vasi, annusò un cactus e proseguì lungo il muretto che portava al giardino. Giuseppina lo vide acquattarsi dietro il cipresso, quello dove s’era impigliato il costume, ma una volta arrivata lì vide qualcosa che giorni prima le era sfuggito. Un lungo bastone di legno era appoggiato all’albero e la sua lama incastonata era ricurva e affilata. La sua punta terrificante scintillava su tutto il giardino e Giuseppina si sentì mancare le gambe. Le cadde il tonno.

Quella falce, giorni prima, non l’aveva proprio vista.


Author Bio: Andrea Tani nasce nel 1974 a Grosseto. Dopo il diploma in Ragioneria, si laurea in Storia e Critica del Cinema e aveva una breve carriera come regista di videoclip musicali sia in Italia che nel Massachusetts (USA). Raccontare le storie però rimane il punto fermo della sua vita. Ama giocare a ping pong, viaggiare sul divano e leggere sempre qualcosa che lo incanta. Attualmente vive a Firenze. Non ha mai pubblicato niente.

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